BresciaOggi e L'Arena 29 agosto 2004
La difficile formazione di Marco
Psicologia di un bambino e tema dell’emigrazione si
fondono
di Giulio Galetto
Forse la giuria del più importante premio letterario
veneto, il Campiello, selezionando per la cinquina dei finalisti il romanzo
di Carmine Abate "La festa del ritorno" (Mondadori, pp. 166, euro 7,50), ha
pensato che una storia imperniata, come quella raccontata in questo libro,
sul dramma dell'emigrazione italiana - in questo caso l'emigrazione di un
calabrese in Francia - poteva essere accolta con un particolare sentimento
di solidarietà in una regione come il Veneto che, da fine Ottocento e per
tutta la prima metà del Novecento, ha conosciuto, in percentuali altissime e
in situazioni gravissime, quelli che Ungaretti in una sua lirica chiama "gli
strappi dell'emigrazione". Naturalmente la qualità letteraria è altra cosa
dal sentimento di solidarietà che un testo può ispirare e noi crediamo che,
appunto sotto il profilo letterario, "La festa del ritorno" abbia le carte
in regola per figurare nella cinquina dei vincitori: detto questo, fa sempre
piacere rilevare, anche a livello di semplice "contenuto", un motivo di
ideale vicinanza Sud-Nord nell'opera di un calabrese premiata dalla giuria
di un premio veneto. Abate è nato nel 1954 a Carfizzi, un paesino della
Calabria abitato da una comunità do italo-albanesi ("arbëreshe", secondo la
lingua di questi gruppi diffusi in Sicilia e in varie zone del Meridione);
con una laurea in lettere in tasca, emigra in Germania e qui, nell'84,
esordisce con un volume di racconti in tedesco. Torna in Italia e si
stabilisce nel Trentino: fa l'insegnante e intanto pubblica altre opere di
narrativa; il 2004 infine (che ci sia per Abate un destino del numero 4 e
magari anche un destino dello spostamento da Sud a Nord?) è l'anno di questa
"Festa del ritorno" che piace ai giurati del Campiello.
E' un libro che certo ha molto di autobiografico, ma non nel senso che
l'emigrazione narrata sia quella dell'autore, bensì nel senso che nel
romanzo, attingendo alla sua memoria di bambino, Abate fa rivivere la storia
di Marco, un ragazzino d'uno di questi paesi arbëreshe che, fra anni
Cinquanta e Sessanta, soffre per l'assenza del padre Tullio emigrato in
Francia, attendendo con ansia i suoi ritorni per le feste di Natale. E
proprio dall'unità di tempo e di luogo della festa natalizia di uno di
questi ritorni si snoda, per via di memorie, di flash-back, di uno
sdoppiarsi dei punti di vista del bambino e del padre, la vicenda. La quale
- oltre a distendere la trama di stenti, di umiliazioni, di affetti
ostacolati e di caparbia volontà del padre emigrante e quella dei giorni di
giochi e di infantile leggerezza ma anche di già adulta pensosità del
bambino - comprende una storia oscura legata ad Elisa, la figlia già grande
che Tullio ha avuto dal primo matrimonio con una donna francese morta quando
la bambina era piccolissima. Elisa, che ora vive nella famiglia che Tullio
si è rifatto a Hora (questo il nome del paese, trasfigurazione nella
finzione letteraria di Carfizzi) sposando una donna del luogo, una
fedelissima Penelope che gli ha dato Marco e un'altra bambina e che attende
paziente i ritorni del marito, Elisa - dicevamo - ha una segreta storia
d'amore con un uomo tanto più vecchio di lei e Marco intuisce l'ombra
inquietante, di sesso e di morte, che grava su lei. Fino al disvelamento
finale e alla imprevista (imprevedibilmente felice) soluzione.
Abate per questo romanzo breve predispone una struttura narrativa che è al
tempo stesso non piattamente lineare (salti cronologici, incastrarsi del
narrato del padre dentro la linea dell'io narrante che è il figlio), ma
anche tale da non provocare nel lettore difficoltà, senso di sfasature o
inconguenze. E soprattutto, secondo noi, la carta vincente del romanzo è la
scrittura. Il muoversi tra le pagine del romanzo con l'impressione di essere
davvero immersi nelle peripezie dell'emigrante calabrese a Parigi o di
sentire quasi fisicamente l'arsura della campagna e il miraggio del mare di
Hora o, sempre a Hora, di incantarsi davanti ai fuochi accesi sul sagrato
della chiesa per la festa della notte di Natale, tutto questo è l'effetto di
una scrittura che sa impastare con abile misura lingua letteraria, forme del
dialetto calabrese e inserti di parlata arbëreshe: un impasto che rende con
immediatezza un vivace colore realistico.
Fondere l'impegno su un tema sociale come quello dell'emigrazione e
l'attenzione al più intimistico motivo della psicologia di un bambino che,
nel rapporto col padre, vive una sua difficile storia di formazione senza
che l'uno dei due temi prevarichi o comprometta la tenuta dell'altro,
significa vincere una bella prova. Quello che a noi pare un neo, però, lo
vorremmo segnalare: l'ultimo dei venticinque brevi capitoli in cui il libro
è articolato, rovesciando in accomodante lieto fine quello che pareva un
insuperabile nodo drammatico, una irredimibile ferita dell'anima, ha
qualcosa di artificiale, di non conseguente con la tensione di tutto il
racconto. Ma forse per molti lettori non sarà così, forse proprio l'happy
end sarà rasserenante piacere aggiunto al piacere di una lettura così
coinvolgente nelle sue pagine problematiche e dolorose.
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