Sul Romanzo -
02/01/2016
“La felicità dell’attesa”: il mondo arbëresh di Carmine Abate
di
Annamaria Trevalle
Carmine Abate è
tornato nelle librerie con un nuovo romanzo, La felicità dell’attesa
(Mondadori, 2015), con il quale ci riporta nell’immaginario borgo
calabrese di Hora, già teatro di alcune sue opere precedenti (Le
stagioni di Hora, Mondadori, 2012, trilogia che comprende i romanzi
Il ballo tondo, La moto di Scanderbeg e Il mosaico del tempo grande,
già pubblicati tra il 1991 e il 2006 in più edizioni da Fazi e da
Mondadori).
Siamo, ancora una volta, nel cuore di una comunità arbëreshe, vale a
dire di antica origine albanese, come la Carfizzi che ha dato i
natali ad Abate nel 1954, e come tutte quelle che ancora
sopravvivono tra Calabria e Sicilia, di cui forse la più nota è
quella di Piana degli Albanesi. In questi luoghi si parla ancora l’arbëresh,
una sorta di albanese arcaico. Come già nelle sue opere precedenti,
Abate punta soprattutto sul registro linguistico per raccontarci una
saga familiare che, nell’arco di tre generazioni, vede il nonno
Carmine Leto emigrare negli Stati Uniti ai primi del Novecento, da
cui torna per stabilirsi di nuovo a Hora con Shirley, la bella
moglie mulatta. Il figlio Jon ripete gli stessi viaggi da un
continente all’altro, facendo fortuna nel campo della ristorazione e
trovando il tempo per innamorarsi di una bellissima e sconosciuta
Norma Jeane, destinata a diventare poco dopo l’attrice più mitizzata
del mondo, mentre al nipote Carmine, nel corso di uno dei suoi
periodici ritorni a Hora, toccherà il compito di ricostruire un po’
per volta le loro intricate vicende, chiarendo, con l’aiuto delle
testimonianze un po’ reticenti di parenti e amici,quei lati oscuri
del passato familiare rimasti a lungo nell’ombra.
Questo è prima di tutto un romanzo sull’emigrazione, che rende
omaggio alle migliaia di italiani che, tra la fine del
diciannovesimo e la prima metà del ventesimo secolo, sono partiti
per affrontare lunghi viaggi, spesso in condizioni molto disagiate,
abbandonando case, luoghi, affetti, alla ricerca di migliori
condizioni di vita altrove. Non sempre, però, questi “viaggi della
speranza” si rivelavano un successo: se molti italiani hanno fatto
fortuna in questo modo, non bisogna dimenticare i moltissimi che
sono morti prima ancora di raggiungere la meta, oppure che si sono
ritrovati a sopravvivere in condizioni ancora peggiori di quelle
lasciate alla partenza.
La felicità dell’attesaè anche un omaggio al periodo d’oro
americano, che tanta parte ha avuto nell’immaginario collettivo
europeo per buona parte del secolo scorso: lo sviluppo economico, la
costruzione dei grattacieli, il mondo del cinema considerato un
miraggio da legioni di belle ragazze, pronte a cercare di
guadagnarsi una posizione sotto i riflettori anche grazie allo
sfruttamento, più o meno spregiudicato, dei propri attributi fisici.
Ma i personaggi del romanzo non si recano soltanto negli Stati
Uniti: c’è pure chi sceglie l’Australia, chi si trasferisce in
Belgio o in Germania e chi, pur limitandosi a un’emigrazione interna
come il giovane Carmine, lascia in ogni caso la Calabria per
stabilirsi a Venezia. L’insieme dei loro spostamenti, con i
matrimoni misti che ne conseguono, produce quelle contaminazioni
linguistiche che sono ormai diventate la cifra stilistica della
narrativa di Carmine Abate: a Hora si parlano indifferentemente
arbëresh e un italiano medio, ma nonna Shirley si esprime spesso in
inglese, così come fanno poi Jon e i suoi amici una volta emigrati
in America, mentre il nipote Carmine dialoga con la moglie Monika,
incontrata nei suoi vagabondaggi europei, in un misto di italiano e
tedesco.
L’abilità di Abate sta proprio nel rendere estremamente naturali
questi dialoghi anche al lettore, che si abitua presto a una
narrazione fluida, dove persino le storpiature dialettali trovano la
loro collocazione senza stonature, in un amalgama che ricorda a
tratti quello di Camilleri. Tuttavia, attraverso la voce del
narratore Carmine, simbolo di una generazione più acculturata e
cosmopolita delle precedenti, è comunque sempre l’italiano a
dominare la felice babele linguistica che rende La felicità
dell’attesa un romanzo senza dubbio molto interessante. |