Mangialibri -
Dicembre 2015
Intervista a Carmine Abate
di
Lisa Puzzella
Nato a
Carfizzi, provincia di Crotone, e vissuto a Bari, in Germania e in
Trentino, Carmine Abate è il cantore di una Calabria sanguigna che
non può e non vuole dimenticare le sue radici storiche e culturali.
Ho visto il suo nome tra gli ospiti del Pisa book festival 2015 e ho
deciso che era un’occasione più unica che rara di intervistare uno
dei miei autori preferiti. Ho deciso di tentare un approccio diretto
e gli ho scritto una mail… salvo accorgermi subito dopo avergliela
inviata di aver totalmente “cannato” il titolo del suo ultimo libro,
che pure stavo leggendo proprio in quei giorni. Carmine però ha
accettato di buon grado un appuntamento a Pisa per l’intervista e
con mio grande sollievo ha graziosamente finto di non aver notato il
mio errore. Ci incontriamo l’ultima sera del Festival, quella
dedicata ai big del panorama letterario italiano. Arriva attorniato
da alcuni amici e ammiratori pisani, tra i quali un assessore del
Comune che immagino condivida il nostro destino di emigrati. La sala
stampa è un alveare di giornalisti, ammiratori, accompagnatori: le
voci che si accavallano lo innervosiscono, gli tolgono
concentrazione. Cerchiamo riparo in un salottino e il suo volto si
fa più disteso, Abate si rilassa e inizia una lenta affabulazione.
Ne La felicità
dell’attesa ho notato alcune novità rispetto alle tematiche dei
tuoi libri precedenti: innanzitutto la condizione dell’emigrante
appare più pacificata, si avvertono meno conflitti e lacerazioni sia
alle partenze che ai ritorni. Un’impressione errata?
È una domanda che mi fa piacere. Hai colto perfettamente questa
sfumatura. In effetti dopo tanti anni ho deciso di trattare gli
emigranti come persone normali. Ho iniziato a scrivere a 16 anni in
Germania per denunciare l’ingiustizia dell’emigrazione. Costringere
una persona ad abbandonare la sua terra è un’ingiustizia e sentivo
l’urgenza di dirlo. Col tempo sono arrivato alla conclusione di
voler raccontare gli emigranti e i loro problemi come delle
situazioni normali, non particolari, perché mi sono reso conto che
altrimenti le situazioni narrate diventano didascaliche, quasi
saggistiche. Un problema teorico che ti poni e cerchi di risolvere
dal punto di vista narrativo. La storia narrata deve suggerire,
semmai, delle riflessioni, ma non deve accadere il contrario. Non
devono essere le riflessioni il punto di partenza o l’ispirazione di
una storia. La mia stessa vita si è pacificata, la mia condizione di
emigrante ha smesso di essere lacerante da quando c’è stata la
scoperta del vivere per addizione, che mi ha portato a decidere di
prendere il meglio dalla mia terra a ciascun mio ritorno, ma anche
di prendere il meglio dalle terre che mi hanno di volta in volta
ospitato. Questo è il messaggio forte che voglio dare agli
immigrati, sia a quelli stranieri che vivono in Italia sia agli
immigrati italiani di seconda o terza generazione che vivono
all’estero. Non è che i conflitti e le lacerazioni non ci siano, ma
le do per scontate, le narro velocemente. Mi focalizzo sui
personaggi facendo loro raccontare come sono pervenuti all’incontro
con l’altro mondo e come questo mondo li abbia influenzati,
arricchiti. Se pensiamo al personaggio di Jon Leto, grazie
all’immigrazione lui ha la possibilità di conoscere e amare una
donna straordinaria come Norma Jeane, conturbante aspirante attrice
che ha un neo sulla guancia sinistra…
Altro elemento
nuovo è il fatto che la lingua sembra aver subito un’evoluzione.
All’arbëreshë che è sempre stato centrale nei tuoi testi, si
affianca quasi con pari dignità il dialetto calabrese, di cui fai un
uso molto meno timido che in passato e in più introduci la neolingua
creata dagli emigranti italo americani con un misto tra i loro
dialetti e l’inglese…
Per quanto riguarda la lingua, è vero, ormai questa è la mia lingua,
la amo molto, fa parte di me e non credo che riuscirei a scrivere un
romanzo dove ci siano personaggi che non la parlano. La felicità
dell’attesa è un romanzo che sembra così costruito, progettato a
tavolino, ma è in realtà venuto di getto; queste sono le lingue che
ho dentro di me. Forse nel prossimo ne userò altre ancora, chissà.
Prima di scrivere questo libro non sapevo l’inglese e non ero mai
stato negli Usa, quindi non avrei potuto usare nemmeno la più
semplice delle frasi: allora ho deciso, a 59 anni, di imparare
l’inglese per poter scrivere questa storia che avevo dentro da
tanto. L’ho imparato a sufficienza da poter intraprendere due viaggi
in America, incontrare e parlare col mitico campione di bowling Andy
Varipapa, originario del mio paese, attraverso le cui parole ho
scoperto le storie di mio nonno e di mio padre. Grazie a questa
conoscenza dell’inglese, per quanto essenziale, l’America non mi è
stata estranea e sono riuscito ad entrare nella testa e nello
sguardo di un personaggio come Marylin Monroe restituendoli al
lettore in maniera spero credibile.
In un dialogo tra
Andy Varipapa e Jon Leto uno dei due dice che in Italia le cose
buone della Merica in Italia non avrebbero speranza, “sarebbero come
lucciole d’inverno”, morte prima di nascere. Questa frase riassume
benissimo il conflitto che attanaglia l’emigrante, l’angoscia della
consapevolezza di essere andati troppo oltre per potersi riconoscere
nel vecchio mondo, non trovi?
Davvero?! Che frase poetica, bravo questo scrittore, ah ah! Scherzi
a parte, io ho superato la cosa sostituendo il ritorno definitivo
con una miriade di ritorni (ormai siamo a uno ogni mese e mezzo
circa) e soprattutto - come dicevo prima - grazie alla decisione di
vivere per addizione. Ma ci sono molti miei amici che, come Andy
Varipapa stesso, hanno deciso di non tornare mai più e nonostante
ciò mi tempestano di telefonate, sono ansiosi di conoscere anche i
dettagli più insignificanti della vita del paese. Sono affascinato
da questi personaggi. Li trovo straordinari. Hanno paura come tutti
di noi dello sguardo del loro paese. Io ne ho meno ora che torno
spesso, ma in passato mi prendeva ad ogni ritorno. Andy Varipapa,
pur avendo deciso di non tornare continua a pensare al paese, ed
consapevole probabilmente è diventato il più grande campione di
bowling di tutti i tempi perché al paese giocava alle “zompe”, un
gioco in cui eccelleva e che ho fatto anch’io da bambino.
Nei tuoi
libri ci sono sempre figure di padri (e nonni) immense, nel bene e
nel male. Uomini con un sistema di valori molto forte, che siano la
“besa”, il senso di giustizia, il bisogno di vendetta, il silenzio
dell’onore; sono uomini che conservano la dignità anche nella
sconfitta e nella perdita. Sono stati così tuo padre e tuo nonno?
I miei libri sono pieni anche di grandi nonne! La cosa strana è che
io non ho mai conosciuto i miei nonni, quello materno è morto pochi
giorni dopo il matrimonio dei miei e quello paterno, Carmine,
trentadue anni prima della mia nascita, come racconto nel libro. Mio
padre è stato un padre “assente”, nel senso che è emigrato. Però
tutte queste figure nei miei libri in realtà sono grandi, come dici
tu, grazie alle donne e al racconto che ne fanno ai figli e nipoti.
Mia madre continuamente ci parlava di mio padre, ne La moto di
Scanderbeg la madre tiene vivo il ricordo del padre che è morto
attraverso il racconto. Prima di scrivere questo libro ho sentito la
voce di mio nonno che in qualche modo mi chiedeva “Hai raccontato la
storia di tutti, perché non racconti anche la mia?”. Credo che in
questo e in altri miei libri i rapporti tra uomini e donne, tra
padri e figli siano così forti perché si basano sul dolore
dell’assenza. L’unione stessa tra Norma Jeane e Jon (mio padre)
nasce dalla condivisione del dolore della perdita del padre.
In Vivere per
addizione, che è uno dei miei libri preferiti, hai affrontato il
tema dell’accoglienza dei migranti e del loro ruolo nei paesi del
sud altrimenti quasi spopolati. A distanza di molti anni da
quei primi arrivi, salta agli occhi come al Sud siano stati spesso
accolti meglio che al Nord. Pensi che sia dovuto a una sorta di
memoria atavica dello sradicamento?
Non, non lo credo. Inizialmente anche nel sud c’è stata diffidenza
perché i migranti ci ricordavano troppo chi noi eravamo. Poi, però,
la tipica solidarietà e il senso dell’ospitalità innato nelle nostre
realtà hanno avuto facilmente la meglio su questa diffidenza
iniziale. Mi piace molto questa domanda perché mi dà l’occasione di
dire che in Calabria ci sono dei paesi come Badolato, Riace e altri
che sono oggetto di studi internazionali per il loro modo di fare
accoglienza reale, concreto e quasi rituale. C’è anche Acquaformosa,
un paese arbëreshë diventato famosissimo per questo. Io li ho
conosciuti questi immigrati che sono stati messi in condizione di
vivere dignitosamente e in cambio hanno ripopolato questi paesi,
hanno riaperto le botteghe dei calzolai, dei fabbri, degli
artigiani. Pensa che mio figlio, che ha la barba, l’estate scorsa è
stato entusiasta del modo perfetto in cui gliel’ha regolata un
afghano che vive a san Nicola dell’alto, ad un prezzo pari a 1\3 di
quello che avrebbe pagato al nord. Sono mestieri che ritornano
grazie a queste persone e nella mia visione utopistica io spero che
anche il mio paese che si sta spopolando, tornerà a essere come la
prima Hora, la prima Carfizzi che 600 anni fa fu ripopolata, non
fondata dai profughi albanesi in fuga dalla loro terra. Bastano
dieci famiglie. Sarà bellissimo perché queste persone continueranno
a parlare la nostra lingua infarcendola di parole loro e la
ricchezza di cui è portatore chi è partito potrà essere condivisa
con chi è rimasto. L’unico modo in ciò potrà avvenire è cercare di
conoscere la loro storia attraverso il dialogo e loro, a propria
volta, dovranno cercare di conoscere la nostra storia. Solo il
dialogo abbatte i muri.
Il tuo romanzo
Il mosaico del tempo grande dà un’impressione immediata di
positività, di energia: sembra come pervaso da una luce fortissima,
dal sole del sud...
Volevo scrivere un romanzo sulla felicità, magari parlando anche di
problemi, certo. Se uno scrittore parla della vita è inevitabile che
ci siano problemi tra i piedi. Tutte le storie sono storie d'amore,
si dice all'inizio del libro. Amore non solo per una donna, ma anche
per la propria terra, per la propria storia, sempre stando molto
attenti a non scadere nella retorica, che è sempre in agguato.
Il cuore del
romanzo è la storia arbëreshë...
Da sempre, da quando sono bambino ho avuto l'ossessione di
raccontare la storia dei profughi albanesi che tanti secoli fa sono
sbarcati in Calabria: che volto avevano, che storie avevano, come
sono riusciti a ricominciare tutto da capo. Sul finire del ‘400 i
Balcani vengono occupati dai Turchi, e un gruppo di albanesi fugge:
si imbarcano vedendo il loro paese in fiamme sulla collina.
Sull’argomento esistono pochissimi documenti storici, e allora ho
immaginato questa storia che avevo dentro. Il romanzo è strutturato
come un mosaico ed uno dei protagonisti è proprio un mosaicista che
racconta a due giovani la storia “del tempo grande”, la memoria. Non
c’è una ragione nostalgica dietro a questa scelta, sono
semplicemente consapevole che il passato può illuminare la nostra
vita. Elias Canetti scrive che “lo scrittore è custode della
metamorfosi”: non banalmente della memoria, ma del cambiamento. Il
tempo grande certo è quello di Skanderbeg che ferma gli Ottomani, ma
diventa tempo presente: non importa quando succedono i fatti, il
tempo è grande se ti lascia una traccia dentro. E quindi Skanderbeg
mi interessa per la luce che getta sul presente.
In questa ottica è
significativo che nel romanzo si arrivi anche all’Albania moderna.
Che rapporto hai con il
Paese nel quale affondano le tue lontanissime radici?
Molti anni fa volevo proprio scrivere un saggio sull’argomento dei
profughi di ieri e di oggi, ma Gianni Amelio col suo bellissimo
Lamerica mi ha bloccato. Nel romanzo Il mosaico del tempo grande
comunque parlo dell’Albania della dittatura comunista, perché è
quella che avevo visitato prima di scriverlo. Non sono capace di
ambientare una storia in un luogo che non conosco. Ero stato in
Albania negli anni ‘80: volevo tornare nella terra che avevo sognato
e sono rimasto delusissimo, ho trovato una terra oppressa da una
cappa grigia e soffocante, e poi noi turisti eravamo tenuti
rigorosamente separati dagli albanesi, non potevamo nemmeno
parlarci, né fotografarli. |