Lucani in Europa -   26/10/2015

 

Alla ricerca della felicità fra un altrove e l'Arberia
di
Angelo Colangelo


 Il mosaico che Carmine Abate va costruendo con una pregevole attività letteraria, diventata particolarmente intensa nell’ultimo quarto di secolo, si arricchisce ora di un nuovo prezioso elemento, il romanzo La felicità dell’attesa. (Milano, Mondadori, 2015, pp. 356). L’ultima tessera musiva si aggiunge ad una lunga serie di opere notevoli, come ad esempio Il ballo tondo, La festa del ritorno, Il mosaico del tempo grande, La collina del vento, e conferma la piena maturità narrativa dello scrittore calabrese, evidenziata da una rara perizia nella costruzione dell’intreccio, vivacizzato da flashback e inserti epistolari, e da uno stile originale, caratterizzato dall’uso raffinato del dialetto rischiarato in lingua e impreziosito da melodiose espressioni arbëreshë o da colorite espressioni americane armonicamente intessute fra loro.

La felicità dell’attesa è un romanzo corale e propone una saga familiare che si snoda per tutto il Novecento attraverso quattro generazioni, a partire da Carmine Leto, emigrato in America all’inizio del secolo e rientrato poi definitivamente ad Hora, il paese natale, insieme con Shirley, la moglie americana. Prosegue poi con le vicende di suo figlio Jon, il vero protagonista, che varca anch’egli per ben tre volte l’Oceano: la prima alla ricerca dei «micidianti» del padre; poi spinto dal desiderio di ritrovare Norma Jeane, la futura Marilyn Monroe, la donna con cui ha vissuto un’appassionante storia d’amore che, seppure breve, lo accompagnerà per tutta la vita; l’ultima, quando va a cercare un lavoro per garantire un futuro sereno alla famiglia rimasta ad Hora e trova il sostegno e l’amicizia di Andy Varipapa, il campione di bowling approdato in America con il padre Carmine.

Anche Franceschina, la sorella di Jon, subito dopo il matrimonio, lascia poco più che ventenne il paese per raggiungere con il marito la lontanissima Australia e liberarsi dall’incubo di una vita di stenti, e non solo. Vanno via, infine, anche i figli di Jon, Lina, che vaga inquieta per il «mondo grande», animata da un forte spirito di anticonformismo e d’indipendenza, e il fratello Carmine, che porta il nome del nonno ed è la voce narrante. Paradossalmente è la più giovane, Lucy, figlia di Lina, che decide di fermarsi ad Hora, dove si prende cura amorevolmente dei nonni e progetta il suo futuro.
E’ appena il caso di annotare che il romanzo appartiene ad un filone letterario incentrato sull’emigrazione, che ha avuto grande successo in Italia, da lungo tempo terra di partenze e oggi anche di arrivi, e che ha prodotto opere molto significative. Basti ricordare, fra le tante, Sull’Oceano di Edmondo De Amicis già alla fine dell’Ottocento e negli ultimi anni L’americano di Celenne di Giuseppe Lupo, Vita di Melania Mazzucco, Il piatto dell’angelo di Laura Pariani.

Mette piuttosto conto di sottolineare che Carmine Abate ci offre ora un altro «saporitoso» grappolo di «storie impastate di Storia» che, vere o verosimili, coerentemente s’inseriscono nel sistema della sua ideologia letteraria ed esprimono l’essenza dell’antropologia di un territorio e della sua gente, attraversando tutto il Novecento, il secolo sconvolto da due guerre mondiali e da cicliche ondate migratorie, che hanno finito per «spolpare» i «paesi dell’osso».

Sono storie, peraltro, che hanno come teatro paesi lontanissimi tra loro, addirittura tre continenti diversi. Tutto ruota, però, intorno ad Hora, un luogo-non luogo, o meglio il luogo dell’anima, come possono essere la Aci Trezza di Giovanni Verga o la Gagliano di Carlo Levi. Il piccolo borgo arbëresh della Calabria, infatti, diventa nell’opera narrativa dello scrittore di Carfizzi l’emblema di un mondo, ricco di un patrimonio inestimabile di antiche e nobili tradizioni epperò devastato dagli esilii forzati di massa. Ed è segnato, perciò, dalle continue laceranti partenze e dai sempre più rari evanescenti ritorni, che producono un sentimento invincibile di nostalgia. E in ogni caso, ricorda malinconicamente Jon, «la nostalgia è una sputazzata sulla ferita della partenza; il ritorno, un palliativo che ti rinfresca l’anima ma non guarisce…».

Hora, inoltre, scintillante nella sua selvatica tragica bellezza, diventa nelle intenzioni di Abate anche la metafora della precarietà dell’umana esistenza, marchiata a fuoco da fatiche e da patimenti, che la solidarietà e l’amicizia possono a stento alleviare, come mostrano le mirabili pagine, in cui si racconta la dolorosa esperienza di Leonardo, il fratello di Jon, nell’inferno della miniera di zolfo. Tortuosa invece è la strada della felicità, che si riduce alla fine ad una rassegnata o fiduciosa consapevolezza che «il presente del futuro è l’attesa».