Leggere: tutti - 15/11/2015 La
felicità dell'attesa “La felicità dell’attesa” è il nuovo libro di Carmine Abate, presentato al Pisa Book Festival 2015, dove l’autore arberesh ha parlato di temi quali l’ emigrazione e l’identità, la famiglia e l’amore, l’importanza della memoria, ma anche dell’attesa del futuro. Quando ha sentito per la prima volta il bisogno di scrivere? Nel momento in cui sono arrivato in Germania e mi sono imbattuto nel mondo dei “germanesi”, cioè gli emigrati italiani in Germania. Quella è stata la prima volta in cui ho capito che l’emigrazione è un’ ingiustizia, e anche la prima volta in cui ho scritto affinché tutti lo capissero. Se non fossi mai emigrato probabilmente non avrei mai scritto, e credo che il giorno in cui non sentirò più questa urgenza, smetterei di scrivere. Come è invece nata la storia de “La felicità dell’attesa”? È nata prendendo spunto dalla mia vita e da quella della mia famiglia. Io ho l’emigrazione nel mio DNA: il mio paese è stato fondato dai profughi albanesi scappati dalla loro terra invasa dai turchi. Il primo a partire, come dice l’incipit del libro, fu mio nonno, protagonista, in modo romanzato, del “La felicità dell’attesa”. Dopo mio nonno partì mio padre e poi partii io. “La felicità dell’attesa” nasce quindi dalla voglia di dare una voce alla mia famiglia, a mio nonno, l’unico personaggio del mio paese di cui non avevo ancora raccontato. In che modo la storia è stata costruita? Di solito, quando inizio una storia, non uso mai una scaletta, come fanno tanti scrittori che sanno già come andrà a finire la vicenda. Io parto da un’immagine, a cui ne segue un’altra e così via. All’inizio conosco vagamente il tema: in questo caso sapevo, per esempio, che volevo raccontare l’emigrazione di mio nonno in America. Poi però mi sono imbattuto in personaggi reali, come Andy Varipapa, famoso campione di bowling del mio paese, o Norma Jeane, futura Marilyn Monroe. Essi sono entrati prepotentemente nella storia, che pian piano ha preso forma. Per costruirla, mi sono recato più volte in America. Lì parlato con delle persone del mio paese, sono venuto a conoscenza del ristorante Family Tavern, dove gli immigrati si riunivano. Per cui la storia si è plasmata piano a piano sotto le mie mani, e a volte la scrittura prendeva la direzione che la storia stessa le imponeva. La voce narrante del libro è un flusso molte volte dialettale che rivela i pensieri dei protagonisti. Ha individuato subito questo stile? Personalmente amo passare dalla terza persona all’io narrante, e allo stesso tempo mi piace usare più io narranti. Mi piace la polifonia che rende vivace la narrazione. In questo libro, per esempio, c’è sia il narratore onnisciente, sia l’io narrante, fino ad arrivare ad una miriade di voci che prendono vita dalle lettere disseminate qua e là nella storia. In realtà, ho scritto libri ancora più polifonici di questi, come “La moto Di Scanderberg”, in cui ci sono 7/8 voci narranti. La scrittura diventa quindi una sorta di mosaico, che va a riflettere la pluralità della nostra identità. Il tema del ritorno al paese natio è centrale nel libro. Quanto conta per Carmine Abate il ritorno? Il ritorno è fondamentale per ognuno di noi; non tanto per il sentimento della nostalgia, ma perché ritornando a casa abbiamo la possibilità di non perdere pezzi importanti di noi stessi. Infatti, io ritorno per recuperare tutti quei pezzi di me che vivono tra le strade del paese. Mi accorgo che più invecchio più torno. È un modo che ho per sostituire il ritorno definitivo, che ormai è impossibile. I tanti ritorni diventano un ritorno totale. Ecco perché tengo così tanto alla mia terra, ed ecco perché parlo di vivere per addizione, ovvero prendere il meglio dalla nostra terra attraverso i ritorni, per poi avere l’energia necessaria per affrontare la lontananza. Tu lavori principalmente con due lingue. C’è qualche difficoltà nel manipolarle? Ci sono concetti che in arbërëshe hanno una valenza che in italiano non riesci ad esprimere? Le storie le penso in arbërëshe e poi le rendo in italiano, e c’è una grande difficoltà in questo. Infatti, la lingua non è solo uno strumento di comunicazione, ma anche un modo per organizzare la realtà, e per esprimere la propria cultura. La lingua natale, per me, è così importante che a volte, alcune parole arbërëshe, sono parole che non conosco in italiano e che si impigliano nella pagina. Da questa lingua ho imparato la musica dello scrivere. Si dice infatti che uno scrittore ha la musica dentro di sè, musica che poi trasferisce sulla pagina. Ecco, la musica per me sono le rapsodie che io sentivo cantare in arbërëshe quando ero bambino. Come quella che in una paginetta riesce a condensare l’intero poema dell’Odissea. Le rapsodie arbërëshe sono sintetiche e corpose, come alla fine è la stessa narrazione. Perché l’immigrato oggi non viene accettato, nonostante la nostra storia sia una storia di immigrazione? Proprio per questo: perché ci ricordano chi eravamo, e spesso noi vogliamo dimenticarlo. In realtà, non ci si può dimenticare della propria storia, né delle cose che ci accomunano con chi oggi cerca fortuna: il coraggio di andare in un paese straniero solo per rendere più facile il futuro dei propri figli, per avere un’istruzione, per vivere più dignitosamente. |