COLIBRI' - 13/11/2015 La
felicità dell'attesa Ho finito di leggerlo cinque minuti fa, e sto pensando come definirlo. Un libro dal cuore pulito, ecco. E’ questa la sensazione che mi ha dato. “La felicità dell’attesa” non ha uno stile particolarmente ricercato o creativo: è onesto, come un abito sobrio, di buon taglio, ma senza accessori o gioielli o stranezze che lo rendano sorprendente. Però la storia è talmente densa e ricca, che forse è un bene che non indossi accessori. Non ci sono nemmeno furbizie, in questo romanzo. O meglio: una ci sarebbe, quella che coinvolge una certa Norma Jeane, aspirante attrice americana degli anni Cinquanta dal neo sulla guancia. Un’idea furba che potrebbe fare di questo romanzo un film. Ma il tono di voce dell’autore è talmente disarmante, a mio avviso, da rendere l’espediente letterario innocente. E’ solo un intrigante neo sulla guancia delle pagine. Carmine Abate racconta una storia che parte da Hora, un paesino arbëresh sulla costa calabra, e sbarca, a più riprese e attraverso varie generazioni, a New York. Una storia fatta di cibo meraviglioso, di miniere dove si muore ogni giorno, di profumi, di vendette, amori, matrimoni, di cuori divisi a metà, tra la voglia di andare e quella di restare. Una lunga storia mai noiosa, mai pedante, mai sciatta. Né mai fredda, sebbene l’autore eviti trucchi per renderla emozionante. Le emozioni arrivano al cuore direttamente dai fatti, raccontati con la stessa purezza che hanno dentro di sé. |