Il Quotidiano, 9 maggio 2012
 

 

Le rindinelle janche
di Emilio Sirianni

  Guance ispide… chi di noi non le ricorda poggiate alle proprie, in un fugace, imbarazzato saluto. Chi non ricorda, fra le proprie, mani indurite di calli, lasciate inerti, quasi che anche una breve stretta fosse avvertita come una manifestazione esagerata di sentimento. E’ il ricordo di padri, nonni o bisnonni, duri come legno vecchio d’ulivo e pure cosi vulnerabili e spaventati da quel che nascondevano dietro i loro sguardi bassi e le barbe incolte.

Sono immagini nei ricordi di tutti i calabresi, almeno di quelli che, come me, non hanno più vent’anni da un pezzo. Così a tutti ci sembra di riconoscerci nella frase che lo scrittore Carmine Abate fa pronunciare Paolo Orsi nel suo ultimo libro “la collina del vento”: “questi luoghi sono ricchi fuori e dentro. Solo chi è capace di amarli sa capirli ed apprezzarne la bellezza e i tesori nascosti. Gli altri sono ciechi e ignoranti. O disonesti e malandrini che pesano solo alle loro tasche”.

Però, quando, venerdì scorso, ascoltavo l’autore leggere questi ed altri brani, alla bella presentazione del libro e nel Salone degli Specchi della Provincia, una sensazione di disagio mi tormentava.

Perché delle differenze devono pur esserci, posto non è stato un esercito invasore a devastare questa terra “fuori e dentro”. Devono esserci, fra noi che leggiamo le pagine di Abate e ci commuoviamo.

La differenza, a ben vedere, è proprio quella che l’autore fa enunciare al grande archeologo, ma non è una banale questione di moti dell’animo. L’amore è intimamente congiunto al dolore: solo chi ha provato il dolore che questa terra distilla da millenni l’ha amata. Non è davvero una questione d’affetti familiari e di ricordi, ché una linea passa in mezzo a noi e ci divide.

Non amava questa terra “Don Lino”, il latifondista che, nel libro, la prende, con le buone o le cattive, ai contadini per possederla fin dove arrivi lo sguardo e dominare paese e campagne. Come non la amano i tanti “Don Lino” odierni,  quelli del sacco costiero, del disboscamento selvaggio e delle “centrali a biomasse”, dell’inganno industriale di Crotone, Saline, Lamezia, i predatori di cave, spiagge e fiumare. Quelli che, anche quando ne mantengono le antiche vocazioni, non la amano di certo, se uomini e donne che lavorano i loro oliveti, agrumeti e vigneti vengono sfruttati come schiavi, perché il “dentro” di questa terra, di cui parla Orsi, sono anche gli uomini che la abitano e non solo le vestigia delle antiche genti. E non importa se oggi la loro pelle è nera, parlano altre lingue, pregano un altro dio, perché quegli uomini appartengono a questa terra per diritto di dolore. Lo stesso che i nostri padri e i nostri nonni hanno patito quasi in ogni angolo del mondo.

Non ama, dunque, questa terra neppure chi ne nega la dignità riducendola a pretesto per ordire i soliti inganni, quelli che usano il nostro antico dolore, la nostra secolare povertà al solo scopo di gonfiarsi le tasche, drenando finanziamenti europei per produzioni che non partiranno mai, lavoro che non verrà mai dato, benessere che continuerà a non arrivare.

Non la amano quelli che usano il lavoro per sottomettere le persone, invece che per renderle libere, che ti costringono a “ringraziare” a deporre i tuoi diritti ai loro piedi: il diritto ad un giusto compenso, il diritto ad essere rispettati, il diritto a non rischiare la salute o la vita, persino il diritto a scegliere da chi essere amministrati. Che lo sappiamo tutti, è sul bisogno di lavorare che qui si regge il potere politico e per il “favore” del posto di lavoro si voterebbe qualsiasi predone. Non amano questa terra quelli che rendono precarie le esistenze di tanti, riducendole a “progetti” e “collaborazioni coordinate”, ponendo un “termine” alle loro aspettative e speranze.

E non è neppure una questione di classe. Che questa terra non l’ama neppure chi cerca favori e non pretende diritti, chi pensa alla sua famiglia e non alla sua città, chi s’ingegna per trovare la scorciatoia e si scappella davanti allo ‘ndranghetista del paese. 

Non la ama chi costruisce la sua seconda casa, bella o brutta che sia, sulla battigia o sul demanio e scarica nel mare o nei fiumi i reflui fognari o quelli della propria azienda, chi vi scarica gli oli esausti della propria officina o stazione di rifornimento. Non la ama chi abbandona frigoriferi, bombole di gas, copertoni ed ogni genere di spazzatura, piccola e grande, ai margini di strade o al fondo di timpe e valloni. Tutti quelli che non fanno la coda, imbrattano le strade e i muri, quelli delle macchine in doppia e tripla fila, delle paraboliche sui balconi, insomma chiunque faccia il possibile perché si continui, tutti, a portare le stimmate della calabritudine.   

A ben vedere, la sensazione che prende è che dalla parte della linea in cui stanno quelli che questa terra non possono certo dire di amarla sia la maggioranza dei calabresi e da questa parte in pochi, le “rindinelle janche”, quelle che paiono ragionare all’incontrario, che rispondono a muso duro ai prepotenti, ai “don Lino”. Quelli come Arturo, il nonno del protagonista, che affronta ridendo gli sgherri ed è pronto a farsi cinque o anche cento anni di confino per la sua terra, quelli che continuano ad andare ancora in direzione ostinata e contraria.