Il Quotidiano della Calabria, 26/02/2012
 

 

Abate: La collina del vento
di Francesco A. Cuteri

  Ho avuto la fortuna di leggere questa nuova, intensa narrazione di Carmine Abate ben prima dell’uscita del libro. L’incontro casuale con l’autore, avvenuto nel cuore della scorsa estate a Soveria Mannelli, dov’ero ospite per una chiacchierata sui ruderi dell’abbazia di Corazzo, ha preso forma con una stretta di mano che, per niente formale e di circostanza, sembrava quella di due vecchi amici che si erano ritrovati, inaspettatamente, nella serena cornice della Presila catanzarese. Quell’incontro, lo confesso oggi per la prima volta, complice anche l’atmosfera della serata, mi è sembrato qualcosa di magico, tant’è vero che per giorni e giorni ho riferito ad Elena, mia moglie, di questa sensazione. E così, quando Carmine mi ha chiesto se, come archeologo ma non solo, potevo dare una lettura al testo del suo ultimo romanzo, mi è sembrato, con grandissima sorpresa, di ricevere in dono il diario segreto di un amico d’infanzia.
Impegnato in una campagna di scavi, ho consumato il testo lentamente, a tarda ora, per ritrovarmi ogni mattina successiva con la mente occupata, in maniera incontenibile e quasi in forma di sogno, dagli episodi che avevo letto la sera precedente e dai contenuti di cui erano impregnati.
Ero particolarmente felice di questo aspetto, anche perché si trattava di una cosa nuova, mai successa prima. I personaggi, con i loro desideri, le loro sofferenze, il loro agire anche in apparenza più semplice, interagivano con la mia coscienza e con la mia esperienza, sollecitandomi, richiamandomi, provocandomi, invitandomi a svegliarmi dal torpore ed a sognare di essere un Arcuri, poderosa quercia o antico ulivo sulla collina del vento. Ho capito così, passo dopo passo, la vera profondità di questo romanzo ed alla fine l’ho immaginato come un ogliastro, un vitale ulivo selvatico capace di dare, dall’innesto con ogni singolo lettore, frutti sempre diversi e preziosi.
Insieme ai personaggi del racconto, ho camminato senza sosta, in lungo e in largo, per la pietrosa collina del Rossarco e lì ho ritrovato, a volte sudato e affaticato, quell’archeologo straordinario che ha dedicato gran parte della sua vita alla scoperta delle testimonianze del passato di un Sud dimenticato e periferico: Paolo Orsi.
Il ritratto che ne viene fuori è del tutto inedito ma reale, concreto e, come in un’antica moneta, la figura di rigoroso studioso appare affiancata, e non contrapposta, a quella burbera ma carica di umanità di colui che ha a cuore il destino degli uomini: sia di quelli che sono già stati, attraverso il paziente recupero di ciò che hanno lasciato, e sia di quelli che con lui condividono, spesso in maniera più drammatica, la contemporaneità.
Il suo amore per la nostra terra, per la sua gente, e per quei tesori in gran parte nascosti, sempre intesi come grande opportunità di riscatto sociale, emerge con forza nel romanzo di Carmine Abate ed il messaggio che ne viene fuori è che, come gli alberi dalle radici profonde e salde, tutti possono affrontare con più forza le sfide del futuro. Sfide che, soprattutto dopo la prima guerra mondiale, risultavano veramente ardue e che furono affrontate da Paolo Orsi, in particolare per quel che riguardava la programmazione degli scavi, grazie anche al rapporto di profonda stima che venne instaurandosi con Umberto Zanotti Bianco, importante figura di archeologo, ambientalista e filantropo che tanto peso ebbe nel curare le piaghe della perduta gente calabrese.
Le ricerche archeologiche, finalizzate a scoprire i resti della sfuggente città di Krimisa, fondata dall’eroe Filottete, pur avendo nel romanzo un ruolo di tutto rilievo, non appaiono mai come qualcosa di astratto rispetto alla realtà circostante e le figure che ne sono coinvolte, spesso in un intreccio di situazioni, trovano la forza di mettere a nudo, a volte con delicatezza, i propri sentimenti e la propria interiorità. Così, scavare nella collina misteriosa diventa un invito ad investigare nel proprio io, aprire lo scrigno dei ricordi e affrontare senza più timore, liberandosi di quel misterioso “peso” che i lettori scopriranno, la quotidianità.
Quando ho iniziato a leggere il romanzo, anche per il ruolo di “consulente archeologo” che Carmine mi aveva assegnato, ho pensato che avrei dovuto prestare maggiore attenzione ad alcune sue parti. Ma mi sbagliavo e ben presto mi sono reso conto che la mia “apprensione”, per due motivi ben precisi, non aveva motivo di esistere: in primo luogo perché sono stato subito catturato dai contenuti della narrazione e dal modo in cui, con capacità di scrittura straordinaria, le vite e i caratteri dei diversi personaggi erano stati delineati ed intrecciati; in secondo luogo perché, in riferimento agli aspetti archeologici, circostanze e persone erano state trattate con grande precisione.
Le nostre chiacchierate telefoniche, alla fine, diventavano un modo per parlare di Paolo Orsi, del desiderio di molti archeologi di portare alla luce l’antica Krimisa, di come la meravigliosa area di Punta Alice, sacra al dio Apollo, era diventata, per dirla con le parole di Emilia Zinzi, “terra di pastura per la Montedison”.
Nello scrivere queste poche righe mi vengono in mente altri due aspetti del romanzo che vorrei brevemente mettere in evidenza.
Una cosa che emerge con forza è il ruolo che, nel passaggio da una generazione all’altra, ha la memoria. Infatti, se alcune cose si trasmettono a chi ci sta accanto con i nostri comportamenti, i nostri modi di fare e, più in generale con il bagaglio della nostra esperienza, altre, forse ancora più importanti, devono essere raccontate per diventare nuovamente fiamma viva.
Altra cosa, esterna al romanzo ma ad esso intrecciata, è la dedica di Carmine al padre. Essenziale, ma così carica di significati che anch’io mi sono rivisto, ancora ragazzo, a percorrere, con mio padre e ad alcuni contadini, il letto del fiume Lipuda alla ricerca di quelle pietre a forma di pane che custodivano il segreto di Krimisa.
La “Collina del vento” è la collina di tutti i Calabresi e non solo: di tutti quelli che credono che la dignità, definita e alimentata con l’energia del proprio onesto lavoro, occupi il primo posto; di quanti credono che un territorio saccheggiato e divorato sarà prima o poi un deserto o un letto di fango; di quelli che ritengono che i tesori nascosti nel sottosuolo, oltre ad essere un patrimonio da tutelare ed una fonte possibile di economia, siano un filo inscindibile che ci ricollega, generazioni dopo generazioni e tramandando esperienze e culture, a quegli uomini che hanno popolato la nostra regione, per la prima volta, circa 600.000 anni fa.
L’esempio dato dalle tante figure, maschili e femminili, che caratterizzano nel corso di quattro generazioni la famiglia Arcuri, e le tante vicende, a volte drammatiche, che si intrecciano con le loro esistenze sono, al contempo, passato e futuro di questa terra.