Avvenire
Martedì 16 febbraio 1999
Dispacci



La moto nomade di Abate


di Eraldo Affinati



Chi era Scanderbeg? L'eroe nazionale albanese che, alla guida del suo popolo, respinse per ventiquattro anni i riepetuti attacchi di Murad II e Maometto II cinque secoli fa Oggi la piazza a lui dedicata, nel centro di Tirana, è un viavai confuso d'automobili, carrozze e bambini Pare che un tempo certe vecchie calabresi delle comunità linguistiche arbëreshë (discendenti delle popolazioni che partirono dalla madre patria per sfuggire ai nemici), nel tener viva la figura del famoso condottiero, ricordassero ai nipoti il suo prezioso consiglio: «Se io muoio e i turchi vi sconfiggono,andatevene in Italia».
Apprendiamo tutto ciò da un romanzo intitolato La moto di Scanderbeg (Fazi) il cui autore Carmine Abate è la dimostrazione vivente delle moteplici fantasie, a volte tragiche, a volte ironiche, che i corsie e i ricorsi storici lasciano trascorrere davanti ai nostr occhi come balocchi d'una giostra di luna-park sui quali si abbattono i colpi di cecchini senza memoria. Egli infatti, nato a Curfizzi, un paese di origine albanese in Calabria, emigrò in Germania Nella Repubblica Federale imparò il tedesco e incontrò la donna che ora è sua moglie. Tornò, divenne padre, pubblicò libri di narrativa (u-no importante Il ballo tondo, tradotto anche in Kosovo) e attualmente abita vicino a Rove-reto dove insegna in una scuola media. La sua casa è situa-ta nei pressi dell'uscita del Brennero e questo gli consente di restare in equilibrio non precario fra mondo germanico e Magna Grecia.
Tre lingue, quattro terre, due figli: un solo individuo. Il cittadino del Terzo Millennio avrà i connotati di Carmine Abate? Quando l'ho conosciuto mi è sembrato di cogliere nel suo sguardo il riverbero di un'invisibile folla: l'inquietudine ansiosa degli antenati balcanici, il pudore virile dei fratelli greco-latini, la tenacia teutonica. Sulla cima di questo groviglio antropologico sventolava, come uno stendardo luminoso, l'Italia del Sud, le cui scenografie non smettono di venire proiettate sugli schermi della televisione non appena si diffonde la notizia che l'ennesima schiatta di Scanderbeg è sbarcata in Puglia.
Il vero protagonisia dell'ultimo romanzo di Abate è una motocicletta Guzzi Dondolino.
Soltanto chi, negli anni Sessanta, ha raccolto gli spiccioli delta leggendaria storia delta marca comasca può compren-dere l'entusiasmo che un sem-plice mezzo meccanico era in grado di scatenare nella men-te e nel cuore degli adolescenti di allora.
Carmine Abate ha usato il Guzzi Dondolino come il filo di una collana dove aggiungere storie su storie: a cominciare da quella dell'omonimo Scanderbeg, ribelle e carismatico capo di tumulti contadini , per finire con Giovanni Alessi, suo figlio, che ne eredita il piglio rivoluzionario, passando attraverso Stefano Santori, il ragazzino dagli occhi di calamita, Clau-dia e Lidia, le donne che spun-tano da queste pagine con volti intagliati nel legno antiche. La lingua di Abate sporca e pie-na d'energia, come sono certi luoghi di fonti era dove ombre di uomini corrono verso indecifrabili avventure. Questo nomadismo emozionale restituisce in un sigillo narrativo la vita errabonda dell'autore: qua-si ne avesse ascoltato il richiamo, amplificato dallo spirito degli avi comuni, il poeta kosovaro Ali Podrimja, in «La finestra aperta», una composi-zione pubblicato nel Quaderno 2. '98 del Fondo Moravia (p.57), sembra rispondere allo scrittore italiano, gettando un ponte di barche più affidabile degli scafi sul sempre più pericoloso e intasato del Canale d'Otranto: «E poi / Tutto è rimasto come prima / Lì la pietra / che non ci permise di fare l'Arberia / Un po' più in là / La Grande Acqua / e l'Occhio di Cristallo che luccica / E alla fine / E alla fine della fine / L'arca di Noè / Ma non vediamo la Riva» (Uqlin, luglio 1996, da «L'isola Albania»)