Mucchio Selvaggio, novembre 2008
 

Parentesi dal ciclo epico che ha caratterizzato fin qui gran parte della produzione di Carmine Abate, Gli anni veloci (Mondadori) è un romanzo sui sogni coccolati e poi persi, e poi forse ritrovati. Un tuffo dove l’acqua era più blu, negli anni 70 calabresi-crotonesi, per l’esattezza – quando la vita degli adolescenti era scandita dalle canzoni di Lucio Battisti.

di Gianluca Veltri

Il tuo nuovo libro segna un cambiamento di rotta rispetto alle tue produzioni passate. Quando hai deciso di scrivere un romanzo così diverso da quelli del ciclo di Hora, e perché?

Non c’è un motivo razionale, una decisone presa a tavolino. Ogni mio romanzo nasce da un’immagine che mi intriga e mi ossessiona per anni. Credo che la prima immagine degli “Anni veloci” sia nata il giorno della morte di Lucio Battisti, che io ho vissuto con la stessa incredulità e sofferenza del protagonista del mio romanzo quando sente alla radio la notizia. È stata come un sasso lanciato in un lago, che piano piano mi ha riportato a galla, per cerchi sempre più larghi, tutta la mia giovinezza. La stesura vera e propria è avvenuta in questi ultimi tre anni.

Sentivi il bisogno di una storia più realistica, pervasa dalla nostra cronaca?

Credo che questa storia più intrisa di realismo e, aggiungerei, di presente sia il risultato finale e non la motivazione, l’urgenza che mi ha spinto a scrivere il libro. In realtà sentivo il bisogno di capire cosa rimane ai nostri giorni di tutti i sogni degli anni veloci, della tenacia e delle lotte, dei luoghi, delle passioni e degli amori che parevano eterni.

È quella che hai descritto, la Crotone della tua giovinezza? Quella della Pertusola e della Montecatini? Cos’era, per te abitante di Carfizzi, Crotone?

Descrivo la Crotone in cui ho studiato negli anni Settanta, l’unica città industrializzata della Calabria di allora, ma anche quella che vede il tramonto della Montecatini, a partire dal settembre dei fuochi del 1993, con tutte le lotte e le delusioni che ne conseguirono. Ai miei occhi di quattordicenne, che veniva da un piccolo paese, Crotone sembrava immensa e molto bella: ricordo il mare, i posti magici come Capo Colonna, i portici dove incontravi una marea di giovani, le lotte degli operai e degli studenti. Insomma Crotone era il luogo in cui provavo l’ebbrezza della libertà, sia pure nell’anonimato della pensione in cui vivevo.

La storia è ambientata nella Crotone degli anni ’70, in alternanza con il 1998-’99, a partire dalla morte di Lucio Battisti. Andiamo con ordine. Le canzoni di Lucio Battisti rappresentano una costante colonna sonora della vicenda. Cosa ha rappresentato per te Battisti?

Battisti rappresentava il nuovo della musica italiana, che usciva finalmente dal tunnel delle melodie sdolcinate, l’unico che poteva competere con la musica inglese, anche grazie ai testi di Mogol che raccontavano delle storie in cui era difficile non identificarsi. Tra l’altro, a me piacevano molto pure i cantautori impegnati come Guccini. Ma l’altra faccia della nostra vita – con le sue emozioni profonde, lo stupore di fronte alla sua bellezza, all’amore - quel desiderio di educazione sentimentale moderna, lo ritrovavo nelle canzoni di Battisti.

Nel libro si dice a un certo punto – ma siamo già negli anni ’90 – che le nuove canzoni di Battisti “hanno testi enigmatici” che non si capiscono. Che rapporti hai con l’ultimo Battisti, quello del sodalizio con Panella?

Io ho amato tutto Battisti e ho molto apprezzato il suo tentativo di intraprendere strade nuove, di rinnovarsi continuamente. I testi surreali di Panella non li ho citati solo perché non rientrano nella collocazione temporale della storia. Comunque a me interessava soprattutto la voce di Battisti, i suoi ritmi e le sue interpretazioni straordinarie. Come dice Anna, Lucio avrebbe potuto cantare anche la lista della spesa e mi avrebbe emozionato.

La protagonista Anna, che propone scrive testi a Battisti, dice dopo aver composto una canzone: “Appena l’ho scritta, la delusione e la tristezza che provavo fino a quel momento mi sono passate d’incanto. Come se ci avessi messo sopra una pietra di parole”. È questo che accade dopo, quando si compone?

Non so se è così per tutti: per Anna scrivere era liberarsi di una storia, di un’ossessione, dialogare con qualcuno che ti sappia ascoltare; insomma, una specie di autoterapia.

Il padre della protagonista, la quale da adulta se ne andrà al Nord a insegnare in una scuola del Trentino, dice: “Io sogno che noi stiamo tutti insieme qui per sempre [e] che chi è partito torna da noi, ché il nostro è il paese più bello del mondo”. Consideri una sconfitta essertene dovuto andare dalla Calabria?

Non è una sconfitta, nel senso che non c’è stata nessuna lotta, ma una costrizione senza alternative, un’ingiustizia. Da tempo però ho smesso di piangermi addosso e ho cercato di trasformare questa fuga forzata in una ricchezza e di valorizzare le mie radici, le mie lingue e le mie storie vecchie e nuove, come uomo e come scrittore.

Altrove scrivi che “il posto in cui sei nato ti resta dentro finché campi, anche se ci vivi lontano da una vita”. Qui io chiederei, a te che sei un emigrante così speciale, di addentrarti – anche poeticamente, anche letterariamente – in questa affermazione.

Con la mia terra ho un rapporto di amore e di rabbia (di odio, mai), per i motivi della costrizione a partire di cui parlavo prima. Però mi accorgo sempre di più che il posto in cui sei nato è sempre presente in te anche se con i piedi e con la testa stai altrove, lontano, da molti anni. Non è tanto nostalgia, io credo di non avere nessuna nostalgia per il mio paese, semplicemente perché ce l’ho tutto dentro di me. Del resto non potrebbe essere diversamente: le radici più profonde e vitali restano quelle del tuo mondo di origine e, come un albero, nemmeno un uomo può vivere con le radici tagliate o essiccate. Per quanto mi riguarda, però, cerco anche di curare amorevolmente le nuove radici che mi crescono sotto i piedi nei tanti posti in cui ho vissuto.

Nel romanzo compare, come personaggio, anche Rino Gaetano. Gli aneddoti nei quali è coinvolto Gaetano sono stati da te verificati realmente, oppure se sono frutto di fantasia?

È tutto verificato, attraverso letture, interviste e discussioni con chi lo ha conosciuto. Voglio però ribadire, come chiarisco nella nota finale, che non mi interessava una ricostruzione documentaria del personaggio, ma illuminare la sua straordinaria parabola di uomo e artista e il forte legame con il luogo in cui era nato e che si portava dentro, come dimostrano tante sue canzoni.

Un tuo parere sulla portata di Rino Gaetano nella nostra canzone. Che ruolo e peso ha avuto. In chi lo rivedi, oggi?

È stato uno dei cantautori che più ha svecchiato la canzone italiana. Era fuori da ogni schema, anticonformista con naturalezza, uno spirito libero, già proiettato verso il futuro, molto di più di tanti suoi colleghi che avevano più successo di lui. Forse per questo le sue canzoni continuano a emozionare e a graffiare a distanza di molti anni. Rino resta inimitabile, un figlio unico. Qualche affinità la trovo in Daniele Silvestri e Vinicio Capossela. E, per le emozioni che provo ascoltandoli, nella Bandabardò.

Passiamo all’altro protagonista, Nicola. È lui che vive gli “anni veloci”, perché lui è un campioncino dei 100 metri. Va veloce, ma solo con le gambe. Curiosamente, va invece molto più lento col cuore, perché impiega quindici anni a capire cosa gli importa veramente nella vita. Perché hai assegnato al personaggio maschile questa doppia velocità?

Confesso che non avevo mai pensato alla “doppia velocità” di Nicola. Però mi sembra coerente con il personaggio, che più si incasina ed è confuso, arrabbiato con Anna e con se stesso, più sprigiona velocità in pista. Comunque sa da subito cosa gli importa nella vita. Infatti in quei quindici anni si mette più volte timidamente sulle tracce di Anna, ma torna sempre indietro, schiacciato dai rimorsi, dalla paura di un rifiuto definitivo e dalla cattiva coscienza.

Verso la fine del romanzo appare un altro personaggio reale, il cantautore Cataldo Perri, calabrese jonico come te, che come te ha messo al centro della propria poetica la lontananza, la partenza e la nostalgia. Da qualche tempo lavorate insieme in reading poetico-musicali. Ce ne puoi parlare?

Sì, in questi ultimi anni è nato e si è rafforzato questo sodalizio con Cataldo. Io leggo dai miei libri e lui canta, a volte canzoni ispirate ai miei libri, e suona con un gruppo di musicisti eccezionali. Inoltre stiamo lavorando al progetto di CD con miei testi poetici e sue musiche. Mi sembra che ci accomuni non solo la tematica dell’emigrazione e dell’impegno sociale, delle radici e del recupero della tradizione in chiave moderna, ma soprattutto una cifra stilistica che mi piace definire con un neologismo “struggenza”, uno struggimento potente, che non scade mai nella retorica, nei piagnistei.

Il fratello di Nicola è espressione dell’impegno politico e sindacale degli anni ’70. Però non mi pare un personaggio verso il quale si indirizzi la simpatia dell’autore. Non c’è molto da salvare, di quegli anni di ribellione?

Nicola è un personaggio sanguigno, pieno di ombre e di luci. Di lui non mi piace soltanto il periodo della ribellione violenta. Altri come lui hanno poi intrapreso la strada sanguinosa e senza ritorno del terrorismo. Per fortuna Nicola si è fermato in tempo, forse grazie alla solidità della sua famiglia. Tra tante cose da salvare di quegli anni, metterei al primo posto il sogno, anzi il desiderio fortissimo, di cambiare il mondo.

Tornerai a Hora? O quel ciclo è finito?

Ci tornerò presto con dei racconti scritti prima degli Anni veloci. Poi vedremo dove mi condurrà la prima immagine del prossimo romanzo. Se lo sapessi ora, non ci prenderei gusto a scriverlo.

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