Il mattino, 13 settembre 2008
 

«GLI ANNI VELOCI» DI ABATE
La giovinezza e il canzoniere dei sogni delusi

di Giuseppe Lupo

  Rispetto ai precedenti romanzi, con Gli anni veloci (Mondadori, pagg. 246, euro 18), CARMINE ABATE compie un salto coraggioso. Il lettore riconosce i tipici aspetti che avevano spianato il successo al Mosaico del tempo grande (2006) o alla Festa del ritorno (2004) o a Tra due mari (2002): il sapiente impasto verbale tra italiano e calabresismi, l’abilità nel caratterizzare con mimesi collaudata personaggi e luoghi, la misura nel rappresentare sentimenti e legami familiari senza sbavature o forzature. Il miracolo si ripete anche in questo libro, limpido nella scrittura, perfetto nell’equilibrio stilistico, travolgente nel declinare un originale canzoniere d’amore.
Sin dai primi capitoli ci si rende facilmente conto di avere tra le mani un prodotto uscito dal laboratorio narrativo di Abate: una solida architettura, costruita sul doppio binario del tempo presente (che è il racconto di un uomo in cerca della propria donna) e del tempo passato (che a dispetto della dimensione atemporale della memoria scorre con la leggerezza degli anni veloci), rivisitato attraverso gli occhi di una famiglia di Crotone, desiderosa di uscire dal tunnel di un Sud post-agricolo e di raggiungere gli agi della modernità.
A sorprendere, questa volta, interviene una strategia che tende a ricondurre l’identità di un popolo e di una terra a lacerazioni individuali, come se lo scrittore avesse voluto concentrare l’esperienza del vivere nella potente e a volte salvifica macchina del ricordo. In questo sta la chiave del romanzo: è la storia di un amore tra un aspirante atleta e un’aspirante collega di Mogol, un rapporto tra due adolescenti che diventano adulti in un mondo solo apparentemente generoso di promesse, intenzionato a far sognare i giovani, come le parole di Lucio Battisti, controcanto di quelle silenti inquietudini (siamo negli anni ’70, in lontananza si avvertono i sussulti del terrorismo ed è ancora viva l’aspirazione, poi delusa, di un Meridione industrializzato) che varcano la soglia delle certezze irraggiungibili, del bisogno di fuga verso l’altrove e finiscono per diventare la sponda agrodolce cui approda sia la generazione dei padri sia quella dei figli. La vicenda sentimentale tra Nicola e Anna diventa così lo specchio di un’epoca neppure tanto lontana, una stagione che si offre con ottimismo, ma poi si rivela avara nel donare corpo a molti di quei progetti fino a rendere chiunque stia sulla scena del racconto un «sognatore di sogni nati morti». Ciascun personaggio di Abate percorre una parabola che dal sogno conduce al disincanto: c’è chi desidera diventare calciatore (Ernesto), chi intende cambiare il mondo con la politica (Mario), chi partecipare a un’Olimpiade e vincere una medaglia (Nicola), chi entrare in rapporti professionali con Lucio Battisti (Anna), chi (come il cantautore Rino Gaetano, che insieme a Pietro Mennea fa capolino nei capitoli) vorrebbe essere il menestrello di un’umanità in attesa finalmente di un regno di giustizia. In realtà, anche quando di ciò che trascorre in fretta non rimarrà che una labile coscienza, Abate affida a un’immagine di convivialità familiare l’epilogo del suo romanzo. Quasi a dire che gli individui non hanno rimedio da opporre allo scempio del tempo, se non lo stare tutti insieme, presente e passato, vivi e morti, adulti e bambini, e aspettare lo spegnersi dei ricordi come l’ultima brace di un grande fuoco.