«GLI ANNI VELOCI» DI ABATE
La giovinezza e il canzoniere dei sogni delusi
di Giuseppe Lupo
Rispetto ai precedenti romanzi, con Gli anni
veloci (Mondadori, pagg. 246, euro 18), CARMINE ABATE compie un salto
coraggioso. Il lettore riconosce i tipici aspetti che avevano spianato il
successo al Mosaico del tempo grande (2006) o alla Festa del ritorno (2004)
o a Tra due mari (2002): il sapiente impasto verbale tra italiano e
calabresismi, l’abilità nel caratterizzare con mimesi collaudata personaggi
e luoghi, la misura nel rappresentare sentimenti e legami familiari senza
sbavature o forzature. Il miracolo si ripete anche in questo libro, limpido
nella scrittura, perfetto nell’equilibrio stilistico, travolgente nel
declinare un originale canzoniere d’amore.
Sin dai primi capitoli ci si rende facilmente conto di avere tra le mani un
prodotto uscito dal laboratorio narrativo di Abate: una solida architettura,
costruita sul doppio binario del tempo presente (che è il racconto di un
uomo in cerca della propria donna) e del tempo passato (che a dispetto della
dimensione atemporale della memoria scorre con la leggerezza degli anni
veloci), rivisitato attraverso gli occhi di una famiglia di Crotone,
desiderosa di uscire dal tunnel di un Sud post-agricolo e di raggiungere gli
agi della modernità.
A sorprendere, questa volta, interviene una strategia che tende a ricondurre
l’identità di un popolo e di una terra a lacerazioni individuali, come se lo
scrittore avesse voluto concentrare l’esperienza del vivere nella potente e
a volte salvifica macchina del ricordo. In questo sta la chiave del romanzo:
è la storia di un amore tra un aspirante atleta e un’aspirante collega di
Mogol, un rapporto tra due adolescenti che diventano adulti in un mondo solo
apparentemente generoso di promesse, intenzionato a far sognare i giovani,
come le parole di Lucio Battisti, controcanto di quelle silenti inquietudini
(siamo negli anni ’70, in lontananza si avvertono i sussulti del terrorismo
ed è ancora viva l’aspirazione, poi delusa, di un Meridione
industrializzato) che varcano la soglia delle certezze irraggiungibili, del
bisogno di fuga verso l’altrove e finiscono per diventare la sponda
agrodolce cui approda sia la generazione dei padri sia quella dei figli. La
vicenda sentimentale tra Nicola e Anna diventa così lo specchio di un’epoca
neppure tanto lontana, una stagione che si offre con ottimismo, ma poi si
rivela avara nel donare corpo a molti di quei progetti fino a rendere
chiunque stia sulla scena del racconto un «sognatore di sogni nati morti».
Ciascun personaggio di Abate percorre una parabola che dal sogno conduce al
disincanto: c’è chi desidera diventare calciatore (Ernesto), chi intende
cambiare il mondo con la politica (Mario), chi partecipare a un’Olimpiade e
vincere una medaglia (Nicola), chi entrare in rapporti professionali con
Lucio Battisti (Anna), chi (come il cantautore Rino Gaetano, che insieme a
Pietro Mennea fa capolino nei capitoli) vorrebbe essere il menestrello di
un’umanità in attesa finalmente di un regno di giustizia. In realtà, anche
quando di ciò che trascorre in fretta non rimarrà che una labile coscienza,
Abate affida a un’immagine di convivialità familiare l’epilogo del suo
romanzo. Quasi a dire che gli individui non hanno rimedio da opporre allo
scempio del tempo, se non lo stare tutti insieme, presente e passato, vivi e
morti, adulti e bambini, e aspettare lo spegnersi dei ricordi come l’ultima
brace di un grande fuoco.