L'indice dei
libri del mese
Settembre 2000
Una storia
familiare tra esilio e nostalgia
Albanesi
di Calabria
di Sergio Pent
L’Italia Unita è uno di quegli
eufemismi che riempiono la bocca ma non i seggi elettorali o le piazze, salvo
festeggiamenti da vittoria calcistica in maglia azzurra. L’Italia che
ricerca le sue radici ha le voci regionali che ne hanno costituito
un’identità letteraria in corpo inadatto ad accogliere le voci nuove, le
cadenze estranee, i ritmi extraterritoriali. Con Carmine Abate e i suoi
suggestivi memoriali del tempo perduto siamo tuttavia ancora più indietro
rispetto alle recenti immatricolazioni di provenienza da ogni altrove: ciò
di cui si fa cantore Abate è un mondo arcaico acciuffato dal buco nero di
medioevi e dalle lotte fratricide, dove gli esili si tramutavano in oasi di
crescita per le future generazioni. La soleggiata Calabria, matrigna dei
remoti emigranti albanesi che vi costituirono casa e patria adottiva, è un
frammento di mondo che appartiene soprattutto a se stesso, senza rinunciare
alle tradizioni, senza perdere lingua, affetti e memoria storica, come se un
perenne cordone ombelicale legasse queste famiglie di italiani in prestito
alla patria lontana, inarrivabile ma sempre venerata. “Il ballo tondo”,
uscito in prima edizione da Marietti nel 1991 si ripropone adesso -
rivisitato dall’autore - come un ideale aggancio al successivo lavoro di
Abate, “La moto di Scanderbeg” (Fazi, 1999): in entrambi i romanzi la
rapsodia delle origini trae spunto per tessere vicende generazionali e
corali, dove il senso d’appartenenza a un esilio perpetuo gioca di rimbalzo
con nostalgie collettive. Anche qui siamo a Hora, il piccolo centro rurale da
cui si esiliano ancor più gli abitanti per trovar pane in terra tedesca o
nel primo Norditalia industriale. Così fa il Mericano, padre assente di
Costantino il Piccolo, che cresce tra i campi e le tradizioni in anni di
cambiamenti essenziali - tra il ‘60 e il ‘70 - ma coi ritmi lenti di un
profugo chiuso a doppia mandata tra passato e futuro. É una storia familiare
di ritmi e usanze arcaiche - il ballo tondo delle feste, degli sposalizi -
tra una madre in attesa perenne del marito, due sorelle grandi alle prese coi
problemi dell’amore, un nonno ancora ingrifato di sesso ma con una sua
memoria storica d’addio. Il processo di crescita di Costantino transita
attraverso il matrimonio della sorella Orlandina con un rustico contadino
trentino, le pene d’amore dell’altra sorella Lucrezia per il disincantato
maestro Carmelo Bevilacqua, i contatti con un mondo che, nonostante le
paratie che lo isolano dalla modernità, gli appartiene in modo ancestrale,
senza rimedio. L’intento di Abate in entrambi questi romanzi è quello di
dar voce a una minoranza che risplende di luce propria, ricca di suggerimenti
ma anche di orgoglio trascorso. La figura del mitico condottiero Scanderbeg,
eroe del popolo albanese, sovrasta la vicenda come un simbolo di ataviche
glorie perennemente da rinverdire. Tra cronaca sociale e memoria culturale,
il romanzo di Abate riveste un’importanza primaria in un contesto dove
sempre più le minoranze etniche e linguistiche dovranno divenire un metro di
confronto narrativo, verso un’ideale coralità d’intenti, senza più
passaporti o permessi di soggiorno relegati nell’anticamera della
letteratura. Questione di tempo e avremo i nostri Rushdie, Ishiguro, Picouly,
a rinfrescare il terreno un po' arido del romanzo italiano.
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